La storia della Dieta Mediterranea: cosa mangiavano gli antichi romani

Secondo capitolo de “La storia della Dieta Mediterranea” del prof. Antonio Capurso.

Parte I – Le radici storiche della dieta Mediterranea

Pane-Olio-Vino”, la triade storica della dieta Mediterranea importata a Roma dalla Grecia, si arricchì ben presto di altri componenti, adattandosi così alle abitudini ed alle possibilità economiche dei diversi ceti sociali di Roma.

Gli abitanti di Roma

Roma all’epoca di Augusto aveva circa 1.000.000 di abitanti, di cui, però, meno del 10% era costituito da patrizi e dall’alta borghesia (avvocati, generali, politici, latifondisti, ecc), mentre il restante 90% della popolazione era costituito da agente comune, la plebe, che includeva operai, maestri, falegnami, manovali, commercianti, legionari, ed una infinita moltitudine di schiavi. A Roma non c’era una classe sociale intermedia: o si era ricchi o si era poveri. I mercanti e i funzionari dello stato, che avevano una discreta posizione economica, si collocavano appena un gradino più su della plebe.

Questa suddivisione della popolazione aiuta a capire quali erano le risorse economiche della gente, da cui dipendevano lo stile di vita, le abitazioni e lo stile alimentare. Abitare e mangiare, a Roma, erano attività strettamente connesse tra loro e ci fanno capire lo stile alimentare dei Romani.

I PATRIZI

I patrizi erano i membri di quel ristretto numero di famiglie che costituivano il senato di Roma in età regia, in origine 100 senatori, poi portati a 300

Come mangiavano i romani

Sebbene i documenti storici ci narrino di pranzi e cene di grande opulenza, quali quelle di Lucullo, Marziale o Trimalcione, in realtà questi pranzi dei ricchi, che potevano costare sino a 60 Dracme o Denarii, nulla avevano in comune con il mangiare della gente comune, che era un mangiare molto più povero e frugale.

Salari e costo della vita a Roma

IL DENARO CORRENTE A ROMA, ANNO 0
A Roma, all’epoca di Cesare Augusto, la moneta di valore più alto era l’Aureo, una moneta d’oro di 8 g (Cesare ne standardizzò il peso a 1/40 della libbra romana). Le monete di taglio inferiore erano frazioni dell’aureo:

  • Aureo = 1
  • Quinario d’oro = 1/2 aureo
  • Denario d’argento = 1/25 (chiamato anche Dracma)
  • Quinario d’argento = 1/50
  • Sesterzio = 1/100
  • Asse = 1/400
  • Quadrante = 1/1600

La moneta corrente, però, quella cioè a cui si faceva riferimento nella quotidianità, era il Denario d’argento per cui, per una questione di praticità, le monete di taglio inferiore erano sottomultipli del Denario, ognuna ¼ di quella superiore

1 Denario = 4 Sesterzi, 16 Assi, 64 Quadranti.

I SALARI DEI ROMANI (paga giornaliera, in sesterzi)

  • Operaio = 3
  • Legionario = 8
  • Avvocato = fino a 10.000
  • Gladiatore (premio) = 15.000 – 60.000
  • Schiavo (prezzo) = 1.200 – 2.500

IL PATRIMONIO DEGLI ARISTOCRATICI (in sesterzi)

  • Crasso = 192.000.000
  • Plinio il giovane = 20.000.000
  • Senatore = 1.000.000 (minimo)

IL COSTO DELLA VITA (in sesterzi)

  • Pane (1 kg) = 0.5 (2 assi)
  • Vino (1 litro) = 0.5 – 1 (2-4 assi)
  • Olio di oliva = 2 – 3
  • Piatto di legumi = 0.5 (2 assi)
  • Ingresso Terme = 0.1 – 1
  • Una casa a Roma = 500.000 – 2.500.000

Le abitudini alimentari dei romani erano molto ben definite: i patrizi e gli aristocratici mangiavano carne, riccamente contornata, il popolo mangiava legumi, pane, olive, formaggi, talvolta un po’ di pesce fritto o salato, raramente carne, di pollo o capra. Gli schiavi, in numero tre volte superiore ai cittadini liberi, mangiavano soltanto pane e olive, qualche avanzo e un po’ di olio di oliva, il “cibarium oleum” (mezza libbra al mese), un olio di pessima qualità che si otteneva dalle olive cadute a terra.

COSA MANGIAVA LA GENTE COMUNE, A ROMA.

Lo stile alimentare della gente comune

La gente comune faceva un solo pasto importante al giorno, alla fine della giornata lavorativa. Al mattino, il romano faceva una colazione leggera (ientaculum), che consisteva abitualmente nel mangiare qualche avanzo della sera precedente; al mezzodì, operai, manovali, carpentieri, falegnami, calderai, arrotini, in una parola i plebei, facevano un pasto frugale, poco più che uno spuntino (prandium) portato da casa (pane, olive, formaggio), oppure andavano a mangiare un piatto caldo ai Termopolia (o Popinae): una puls con delle verdure o un piatto a base di legumi (lenticchie, ceci, fave, piselli), accompagnato con del pane ed un bicchiere di vino. Il pasto più importante della giornata era quello della sera, la cena (coena) che i romani consumavano a casa fra le 4 e le 5 del pomeriggio, alla fine cioè della giornata lavorativa (i romani finivano di lavorare intorno alle 3). La coena era generalmente costituita da una prima portata, una minestra calda, generalmente una puls o pultem, una specie di polenta di farina di farro cotta in acqua o latte, generalmente arricchita con delle verdure, a cui seguiva una seconda portata a base di formaggio, qualche volta carne (pollo, capretto, agnello) o pesce, che i romani amavano fritto ed abbondantemente irrorato di aceto, anche perché così si poteva conservare per il giorno successivo.

A mezzodì, quindi, la gente non tornava a casa per il pasto anche perché cucinare a casa era, fra l’altro, una operazione non semplice per via della tipologia delle abitazioni; queste, infatti, non avevano un vano-cucina ove preparare i pasti, per cui cucinare diveniva una operazione complessa e molto scomoda, non scevra anche da rischi di incendi. Per questo la gente preferiva mangiare fuori, in bottega, oppure al Termopolium ove per altro una puls con verdure o un piatto di legumi con del pane costava soltanto un paio di “assi” (mezzo sesterzio).

IL TERMOPOLIUM (Popina)

I Romani del ceto popolare, ma anche viaggiatori e mercanti, erano clienti abituali dei Termopolii, o Popinae, tavole calde molto diffuse a Roma e in provincia (a Pompei ne sono state riportate alla luce ben 89), ove si potevano acquistare con poca spesa dei buoni piatti caldi e un bicchiere di vino, generalmente consumati in piedi al banco oppure portati via alla propria bottega. Naturalmente, mercanti e viaggiatori, che avevano maggiori disponibilità economiche, mangiavano decisamente meglio, anche piatti di carne arricchiti con contorni di verdure (lattughe, porri, menta, rucola), uova sode, lumache di terra ed altro (Fig. 4), comodamente seduti in apposite salette attigue.

Sulle pareti dei Termopoli e del banco di vendita vi erano affreschi con immagini delle pietanze del locale, una sorta di menu per immagini. In effetti, in quell’epoca solo il linguaggio delle immagini informava gli avventori sui cibi del Termopolio, considerato che un menu scritto non avrebbe avuto senso visto che la gente, il popolo comune, era analfabeta, e soltanto gli scribi, i poeti, gli storici e i componenti elitari della società sapevano leggere e scrivere.

Generalmente, per il pasto di mezzodì, la gente comune acquistava al Termopolium un piatto di legumi, o una puls (o pultem), una polenta fatta con farina di farro cotta in acqua o latte, talvolta con verdure o carne, con del pane e delle olive, talvolta uova sode.

Fig. 3 – Il Termopolio di Vetuzium Placidum a Pompei. Era una tavola calda, uno “street food” dell’epoca romana. C’era un bancone affacciato sulla strada che conteneva delle grandi giare (dolia) in cui vi erano i cibi caldi da servire.
Fig. 4 – Cosa si poteva mangiare al Termopolium di Vetuzium Placidum a Pompei. Le verdure avevano un ruolo molto marginale, generalmente nella poultem o di contorno alla carne. I piatti elencati a destra erano generalmente accessibili a clienti più abbienti

La vita di ogni giorno della gente comune, a Roma

La vita della gente comune a Roma

Per le strade della Roma antica, dalla mattina sino alle tre del pomeriggio, c’era un brulichio continuo di mercanti e di gente indaffarata, che rendeva difficile la vita a chi desiderava la tranquillità. Si lamentava Marco Valerio Marziale, che della vita romana così scrisse: “Il povero non può né pensare né dormire a Roma. Al mattino i maestri di scuola, di notte i fornai, per tutto il giorno i martelli dei calderai rendono impossibile la vita…il fracasso non cessa mai… Oh! Si dorme bene a Roma, ma nelle case dei grandi signori che hanno le campagne e le vigne nel mezzo della città. Là negli intimi recessi dei palazzi c’è il sonno; nessuna voce turba i silenzi e il giorno entra soltanto quando è voluto. A me rompono il sonno le risate della gente che passa e tutto sembra attorno al mio letto”. Marziale protestava per i rumori della strada e aveva le sue buone ragioni, perché abitava in una di quelle insule chiassose.

LE CASE DI ROMA

I romani vivevano in grandi caseggiati, le “insule” (Fig. 5), palazzi di molti piani, sino a 6 piani, nei quali soltanto i locali del piano terreno e gli appartamenti del primo piano avevano un certo decoro e, soprattutto, avevano l’acqua corrente, per cui erano appartamenti di maggior pregio abitati da gente più abbiente. I piani superiori, che il più delle volte erano sopraelevazioni in legno, erano formati invece da appartamenti con stanze molto piccole, che venivano molto spesso subaffittate ad altri poveracci per cui questi caseggiati erano generalmente brulicanti di gente e molto chiassosi. Gli appartamenti avevano pochissimi mobili essenziali, non avevano bagno né un vano-cucina, le finestre erano generalmente senza vetri (i vetri c’erano a Roma, ma erano costosi per cui se li potevano permettere soltanto i ricchi) per cui per ripararsi dal freddo si dovevano tenere le imposte chiuse anche di giorno e stare al buio. Non essendoci una cucina, per il “prandium” si cucinava su una sorta di braciere o su una fornacetta collocati vicino ad una finestra per far uscire il fumo e gli odori. Questo spiega perché la gente romana generalmente non preparava i pasti a casa ma preferiva acquistarli per pochi “assi” al Termopolium. Un altro motivo per cui i romani non cucinavano a casa era rappresentato dal fatto che i piani superiori delle insule, come si è detto, erano molto spesso delle sopraelevazioni in legno, per cui non infrequentemente scoppiavano incendi tremendi.

Fig. 5 – Un’insula, a Roma

Le testimonianze storiche dei cibi

Le testimonianze dei cibi dell’epoca ci vengono da più fonti storiche; le principali sono rappresentate dai testi dei classici romani che ci sono pervenuti; altre fonti sono gli affreschi rinvenuti nelle abitazioni e nei Termopoli; in questi ultimi gli affreschi erano una sorta di menu illustrato ed avevano la funzione di invogliare gli avventori ad entrare (Fig. 6); una terza fonte infine sono i reperti carbonizzati di alimenti rinvenuti negli scavi di Pompei: pani, olive, piselli, fichi (Fig. 9).

I reperti portati alla luce a Pompei sono oggi una preziosa quanto affascinante testimonianza del mondo reale di quell’epoca, quasi una foto istantanea di un giorno qualunque della Pompei del 79 d.C. che una inimmaginabile catastrofe, quale fu l’eruzione del Vesuvio, cristallizzò in pochi istanti, per sempre, conservandola poi intatta per 2000 anni sotto una spessa coltre di ceneri e lapilli.

Fig. 6 – Affresco sul banco di vendita di un Termopolium (Pompei), con immagini di anatre germane e di un pollo, che avevano lo scopo di attrarre clienti nel Termopolium. In effetti, all’interno dei Dolia (i contenitori di cibo situati nel banco di vendita, all’interno di quei grandi fori) sono stati rinvenuti frammenti di ossa di anatra, di maiale, di capretto e di pecora, nonché resti di pesce e di lumache di terra. Sul fondo di un dolio sono stati trovati residui di fave frammentate che, secondo Apicio, nel De re Coquinaria, erano usate per modificare il gusto e il colore del vino, sbiancandolo.

L’ERUZIONE DEL VESUVIO, 79 d.C.

Era il 24 ottobre (il 24 agosto secondo altri storici) del 79 d.C. Intorno all’una del pomeriggio, con un tremendo  boato, la “montagna” cominciò ad eruttare. Si formò ben presto  una colonna eruttiva di ceneri e lapilli che si levò molto alta, nel cielo. Secondo la stima di Plinio il giovane, testimone oculare del fenomeno, la colonna eruttiva raggiunse l’altezza di circa 30 chilometri, secondo le moderne unità di misura. Plinio il giovane, che in quei giorni si trovava a Miseno (a 21 km dal vulcano), a villeggiare nella villa dello zio Plinio il Vecchio, comandante della flotta imperiale, così descrisse il fenomeno: “…Si elevava una nube, ma chi guardava da lontano  non riusciva a precisare da quale montagna. Nessun’altra pianta meglio del pino ne potrebbe riprodurre la forma. Infatti slanciatosi in su in modo da suggerire l’idea di un altissimo tronco, si apriva in diversi rami…”. Nessuno aveva mai visto un fenomeno del genere, una eruzione spaventosa, orrigilmente gigantesca, che lanciava in alto questa nube allungata che poi si allargava in una specie di ombrello, tanto da sembrare appunto un gigantesco pino”. Straordinaria è la descrizione di Plinio: “il mare si ritirò di quasi un chilometro, i lampi e le fiamme del vulcano, i terremoti continui, la pioggia di cenere e lapilli; furono lanciati sassi che raggiunsero le più grandi altezze, poi una grande quantità di fumo e di fuoco oscurò l’aria e il sole come se non fosse mai esistito; una indicibile quantità di cenere, spinta dal vento, occupò l’aria e la terra e il mare, cosa che cagionò molti danni agli uomini, alle campagne al bestiame…” L’eruzione durò circa 25 ore. La parte più drammatica e distruttiva della eruzione, tuttavia, non fu quella del primo giorno con la caduta di ceneri, lapilli e pomici, bensì quella del giorno successivo quando, verso le  8 del mattino, preceduta da un  pauroso boato, si alzò altissima nel cielo una colonna di ceneri, sassi e gas, estremamente densa e pesante, il “surge” piroclastico, la cui temperature al suo interno era di circa 1000 gradi. Per la sua altissima densità, questa  colonna dopo essersi levata altissima collassò su se stessa abbattendosi sul fianco della montagna e rotolando giù in direzione di Ercolano e Pompei ad una velocità di circa 100 km orari. La città di Pompei fu attraversata in una manciata di secondi da questo flusso piroclastico la cui temperatura al suo interno era intorno ai 400-600 gradi, bruciando e cristallizzando qualunque forma di vita. La vita si fermò in pochi istanti, come in una drammatica istantanea, che oggi ci viene restituita intatta, dopo 2000 anni (Fig 7,8)

Fig.7 – L’aspetto della nube piroclastica
Fig. 8 – La diffusione della nube piroclastica
Fig. 9 – Reperti di cibi carbonizzati ritrovati a Pompei

Cosa mangiavano i ricchi

I pranzi dei ricchi, a Roma

A Roma, i patrizi, i grandi generali, in una parola i ricchi, mangiavano fondamentalmente carne, ma amavano molto anche il pesce. Ci sono pervenute numerose testimonianze storiche di famosi banchetti e convivi. Per gli ospiti, che erano sempre numerosi, la cena iniziava con un  servitore, generalmente uno schiavo, che entrava spingendo lo sferculum, un carrello con tante patine, grandi piatti contenenti “stuzzichini” da mangiare con le mani, soprattutto verdurine fritte e frittelline varie. Il banchetto poi iniziava con la gustatio o promulsis, un antipasto  a base di olive nere mature, olive verdi in salamoia, insalata, asparagi selvatici appena scottati in acqua bollente, dei porri e del buon vino versato nelle patelle (piccole ciotole). La prima libagione aveva un valore sacrale e serviva ad acquetare la coscienza.  Le portate centrali del convivio erano a base di carne ma, come si è detto, i romani amavano molto anche il pesce, che doveva essere freschissimo per cui i ricchi si erano dotati di allevamenti propri, generalmente piscine o vivai situati lungo le coste marine, ma anche nei porti, negli stagni marittimi, nelle peschiere e nelle cave, ove venivano allevate murene, orate, triglie, sogliole, rombi, anguille e persino il pesce scaro (pesce pappagallo), importato a Roma dall’ammiraglio Optano. Varrone riferisce che Lucullo fece perforare una altura per far fluire l’acqua di mare nelle sue piscine/vivai.

Comunque le portate più importanti erano quelle a base di carne. Molto apprezzato  era il cinghiale umbro o lucano, ripieno di cacciagione e cotto lentamente allo spiedo, spruzzato di tanto in tanto con olio di oliva aromatizzato con spezie. Il cinghiale veniva portato a tavola intero, lasciando al padrone di casa il compito di tagliare i pezzi che egli poi distribuiva ai commensali.

I convivi, nei documenti storici

A pranzo da Giovenale

Nella undicesima delle sue satire, Giovenale si rivolge ad un amico, Persico, perché si rechi a mangiare da lui in campagna. Per invogliarlo ad accettare il suo invito, Giovenale descrive il pranzo che gli offrirà.

Innanzitutto un capretto bello grasso della campagna di Tivoli, il più tenero del gregge, che ha ancora più latte che sangue; e poi asparagi di montagna. Quindi uova belle grosse, ancor tiepide nel loro fieno, non senza le galline che le han fatte, e uve ben conservate per questi mesi dell’anno, e pere di Segni e di Siro e mele paragonabili a quelle del Piceno, fresche ancora di profumo”.

A cena da Marziale

Marziale invita a cena un  amico e promette di non tediarlo con le sue lettura. “Puoi venire all’ora ottava; ci laveremo insieme, ai bagni di Stefano. Ti darò per prima una lattuga lassativa per lo stomaco e gambi di porro staccati dalle loro piantine; poi fette di tonno salato più grosse di un piccolo sgombro, accompagnate da uova su foglie di ruta; non mancheranno altre uova cotte sulla brace, del formaggio rappreso col fuoco del Velabro e olive che hanno sentito il freddo del Piceno. Questo basterà come antipasto Vuoi sapere gli altri piatti?  mentirò per farti venire: pesci, ostriche, tettine di scrofa e uccellagione ben ingrassata di cortile e di palude”.

In un altro epigramma, Marziale invita alcuni amici a fuggire il calore eccessivo delle Terme per ricercare intorno alla tavola la piacevolezza del cibo semplice e della conversazione pacata. “O Stella, Nepote, Canio, Ceriale, Flacco, venite? La tavola a forma di sigma ammette sette commensali: siamo sei, possiamo aggiungere Lupo. La fattoressa mi ha portato delle malve buone per scaricare il ventre, e vari prodotti dell’orto. Tra essi troverai la lattuga sessile, il porro tagliato, la menta che provoca rutti e l’erba afrodisiaca; fette di uova sode faranno da contorno a sgombri avvolti in foglie di ruta; vi saranno anche poppe di scrofa grondanti e tonno in salamoia: questo sarà l’antipasto. Poi verrà servito il pranzetto costituito da un’unica portata: un capretto strappato alla gola di un feroce lupo, braciole che non avranno bisogno di coltello del maestro di mensa, fave, cibo di operai, e cavoli di primo taglio. A questi cibi si aggiungerà un pollo e il prosciutto rimasto da tre pranzi precedenti. Quando sarete sazi, vi darò dolce frutta e vino nomentano senza feccia, che ha compiuto tre anni al tempo del secondo consolato di Frontino (circa il 98 d.C.).

Seneca e le cene dei ricchi

Dal suo esilio, Seneca scrive alla madre Elvia per tranquillizzarla sul suo stato fisico ed economico, stigmatizzando aspramente le abitudini dei ricchi a tavola. “Le esigenze del (mio) corpo sono minime: vuole allontanare il freddo e calmare la fame e la sete col cibo. Ogni ulteriore desiderio lo si cerca affannosamente per i vizi, non per i bisogni.  … Da ogni parte (i ricchi) fanno venire tutte le specialità per la gola schizzinosa: dall’oceano lontanissimo viene portato ciò che lo stomaco distrutto dalle raffinatezze può appena sopportare: vomitano per mangiare e mangiano per vomitare e non si degnano di digerire quei cibi che cercano in tutto l’universo.”

Le cene di Lucullo

Lucullo fu un generale romano di grande fama per essersi distinto nella guerra contro Mitridate nel Ponto-Eusino, ma divenne famoso fra gli aristocratici non tanto per il suo valore militare quanto per lo sfarzo della sua casa e per le ricche cene che offriva in onore degli amici. Lucullo aveva una casa lussuosa con molte sale da pranzo: ognuna aveva il nome di una divinità e tutto ciò che c’era in queste stanze, dal vasellame alla lista dei cibi, erano in sintonia col tema mitologico. Allo schiavo cerimoniere bastava sapere in quale sala il padrone voleva cenare  per far sì che  il servizio ed il menù “fossero intonati”.

UN INVITO A CENA IMPREVISTO

Un giorno Lucullo incontrò per caso due illustri amici, Pompeo e Cicerone, che gli espressero il desiderio di essere invitati a cena. Lucullo in principio temporeggiò cercando di rimandare l’incontro al giorno successivo, ma i due forzarono la mano a Lucullo, perché erano curiosi di conoscere di persona la magnificenza della sua casa di cui tanto avevano sentito parlare. I due birboni perciò raggiunsero in  fretta la casa del loro amico per non dargli il tempo di precederli e di organizzare un servizio d’eccezione. Così Lucullo fu costretto ad agire in presenza degli ospiti: chiamò il cerimoniere di casa e si limitò a dirgli che desiderava cenare nella sala di Apollo. La cena fu servita con una tale prontezza e con tanta varietà di portate che sorprese sia Cicerone che Pompeo.

Queste cene erano sempre molto costose. La spesa per una cena nella sala di Apollo, per esempio, arrivava a costare cinquanta dracme, una cifra veramente considerevole per quell’epoca.  Ma Lucullo in fatto di cibi era molto esigente: voleva che il sevizio di ogni cena fosse sempre impeccabile. Si diceva in giro che un giorno redarguì il servitore di sala per avergli servito una cena meno sontuosa del solito. Al meschino che si giustificava dicendo che aveva usato moderazione perché non c’era alcun ospite, rispose con collera:” Non sapevi che Lucullo cenava questa sera in casa di Lucullo?”

A CENA A CASA DI LUCULLO

Prima portata

Uova sode
Ostriche del Circeo
Ricci di Capo Miseno
Cozze di Taranto
Tonno giovane di Calcedonia
Pesci marinati ed acciughe
Prosciutto della Gallia
Chiocciole dell’Africa, fritte con cipolle.
Olive
Vino pastoso di Sorrento, chiarificato con uova di piccione

Seconda portata

Storione di Rodi
Murena cotta nel vino di Chio, con salsa di olio di Venafro
Pavoni in umido ripieni di salsicce
Porchetta ripiena di beccafichi
Polli arrostiti con contorno di insalata
Cinghialotto della Lucania arrosto, guarnito con spalla di coniglio Pasticcio di fegato d’oca bianca con fichi grassi

Terza portata  

Nocciole, datteri d’Egitto, frutta del Piceno, uva passa, miele di Calabria, pasticceria, confetture ed altre golosità.

I vini

Vini vecchissimi di Cecubo e di Falerno addolciti con idromele.

La cena di Trimalcione

Trimalcione è un personaggio del Satyricon, il celebre romanzo di Petronio Arbitro di cui ci sono pervenuti numerosi frammenti. Trimalcione era un ex schiavo arricchito che offriva una cena spettacolare ai suoi numerosi ospiti. La descrizione della cena è una vera miniera di informazioni sulle abitudini gastronomiche e conviviali del tempo, anche se piuttosto lontana dalla realtà  quotidiana. E’ in effetti la descrizione fantasiosa di un avvenimento all’insegna dell’eccesso, dove l’ostentazione non si coniuga col buon gusto, ma è soltanto l’espressione della volgare grossolanità di un uomo senza cultura che l’autore dipinge in modo grottesco e caricaturale. La voce narrante è quella del giovane Encolpio, che col suo amante Gitone era fra i numerosi invitati al convivio.

LA CENA DI TRIMALCIONE

………Intanto ci venne servito un succulento antipasto .…Al centro di un grande vassoio troneggiava un asinello in bronzo con un basto che da un lato portava olive bianche, dall’altro olive nere…. sul dorso c’erano due piattelli ornati con ghiri di miele e salsa di papavero, e dentro salsicce che friggevano e, sotto, prugne di Siria e chicchi di melagrana

…….. e mentre noi eravamo ancora all’antipasto venne portata una cesta con dentro una gallina di legno con le ali aperte; gli schiavi frugarono sotto la gallina tirando fuori uova di pavone che distribuirono ai convitati i quali, quando ruppero il guscio (fatto di farina) trovarono un  grasso beccafico in salsa pepata di tuorlo.

Subito dopo vennero due negri con piccoli otri e ci versarono sulle mani mica acqua ma vino, poi arrivarono della anfore ben sigillate che portavano al collo l’etichetta “Falerno Opimiano di cento anni”.

……..C’era una gran teglia rotonda che aveva torno torno i dodici segni dello zodiaco, e sopra ognuno di essi il cuoco aveva collocato una specialità corrispondente al simbolo: sopra l’Ariete, ceci aretini; sul Toro, un pezzo di manzo; sui Gemelli, testicoli e rognoni; sul Cancro, una corona; sulla Vergine, una vulva di troia sterile; sulla Libbra, una bilancia con un pasticcio in un piatto e una focaccia nell’altro; sullo Scorpione, un pesciolino di mare; sul Sagittario, una lepre; sul Capricorno un’aragosta; sull’Acquario, un’oca; sui Pesci, due triglie. Al centro, spiccava un favo colmo di miele.

          Uno schiavetto egiziano girava servendo il pane in un fornello d’argento.

……. Quattro servi accorsero ballando al suono della musica, e sollevando il coperchio del tegame noi vedemmo uccelli ripieni, mammelle di troia ed una lepre tutta ornata di piume; agli angoli del tegame c’erano quattro figure di Marsia che versavano da piccoli otri una salsa piccante su certi pesci che vi nuotavano come in un lago.

(A questo punto Trimalcione inizia un lungo monologo infarcito di strafalcioni e infinite sciocchezze)….. Mentre parlava, ci giunse un gran baccano e alcuni cani di Laconia entrarono di corsa; li seguiva un gran vassoio sul quale troneggiava un enorme cinghiale con un cappello in testa, alle zanne erano appesi due canestrini, in uno vi erano datteri freschi, nell’altro datteri secchi. Torno torno, per dirci che era una femmina, c’erano tanti porcellini di marzapane che sembravano attaccati alle mammelle e che ci furono dati in dono perché ce li portassimo a casa. …. Un omaccione barbuto, impugnato un coltello da caccia, aprì il fianco del cinghiale  e ne uscì una folata di tordi vivi che mentre svolazzavano furono catturati da uccellatori messi li apposta.

…… Intanto uno schiavetto tutto inghirlandato di pampini ed edere portava  in giro un canestro di uva, declamando con voce stridula le poesie del suo padrone.

……Dopo che fu sparecchiata la tavola a suon di musica, fecero il loro ingresso in sala tre maiali bianchi, tutti ornati di guinzagli e sonagliere, che secondo quanto ci disse il presentatore, avevano rispettivamente due, tre e sei anni. ….E Trimalcione, rotti gli indugi, esclamò: quale volete di questi che vi venga subito servito?…. I miei cuochi ti sanno mettere in pentola un vitello intero…. E subito chiamò un cuoco e gli ordinò di scannare il più vecchio dei tre…..

……   (gridava Trimalcione): ma al vino dovete farci onore; grazie a dio, non lo compro mica, io; tutto quello che stasera state assaggiando viene da un podere che non ho  ancora visto. Mi hanno detto che si trova al confine fra Terracina e Taranto; ma ora voglio unire la Sicilia a questa mia proprietà, così mi viene lo sfizio di andare in Africa, viaggiando sul mio …..

          Non aveva ancora finito di dire simili idiozie che una enorme teglia con dentro quel gran porco di prima, occupò tutta la tavola. Restammo trasecolati per tanta sveltezza e giurammo che neppure un cappone si sarebbe potuto cuocere così in fretta, tanto più che quel maiale ci sembrava molto più grosso del cinghiale che ci era stato servito poco prima. Ma Trimalcione, dopo averlo guardato e riguardato, esclamò: Ma come, disse, questo porco non è stato sventrato? No, per dio, che non è stato sventrato! Chiamate subito il cuoco, che venga qui immediatamente. Quello venne con un’aria tutta mogia e disse che se ne era proprio dimenticato. 

Cosa? Dimenticato? – urlò Trimalcione – E lo dici come se ci mancasse il pepe o la salsa! Spogliatelo, e subito.

Il cuoco venne spogliato e restò lì impalato fra due carnefici:

Allora tutti i presenti si misero ad intercedere per lui: suvvia, son cose che capitano – dicevano -; avanti, perdonalo; se lo farà un’altra volta, allora nessuno muoverà più un dito per lui.

…..Trimalcione, che la pensava diversamente, mettendosi a ridere esclamò: Ebbene, se hai una memoria così cattiva, sventralo subito qui, dinanzi a noi. E il cuoco, rimessasi la tunica, afferrò un coltello e colpendo qua e là con la mano che gli tremava, aprì il ventre del porco. Ed ecco che, dagli squarci che si allargavano per il peso, vennero fuori cotechini e salsicce. Evviva Gaio, si mise allora a gridare ed applaudire tutta la servitù. E anche il cuoco s’ebbe una bella corona d’argento e fu fatto bere alla nostra presenza, servito addirittura su un vassoio corinzio…..

La cena di Trimalcione continua tra colpi di scena teatrali e portate di torte, dolciumi e bevande di ogni genere e tanta conversazione su argomenti storico-mitologici, omerici, filosofici e così via.

E mentre accadeva tutto questo, un littore bussò alla porta della sala e fece il suo ingresso un nuovo “mangiafranco” vestito di bianco con il suo numeroso seguito. Si trattava del seviro (magistrato onorario di rango inferiore) Abinna, che molto sbronzo e appoggiandosi alla moglie sedette al posto d’onore chiedendo vino ed acqua calda. Egli proveniva da un altro convivio (“ma il mio pensiero era a questo convivio”, diceva biascicando). E Trimalcione era lì a chiedergli cosa avessero mai mangiato in quel convivio.

La descrizione che segue è un’altra interessante testimonianza delle abitudini alimentari di quell’epoca, un vero tuffo nel passato, nell’antico mondo di Roma.   “Ma si può sapere che cosa avete mangiato” insistè Trimalcione. “Ora proverò a dirtelo”, rispose Abinna; “ho una memoria, io, che qualche volta dimentico pure il mio nome. Dunque abbiamo mangiato prima un porco tutto coronato di salsicce e cotechini ottimamente cucinati, poi barbabietole e pane di casa, che io preferisco a quello bianco perché ti dà sostanza e quando vai di corpo non ti fa piangere. Poi ci hanno servito una focaccia freddaMa si può sapere che cosa avete mangiato” insistè Trimalcione. “Ora proverò a dirtelo”, rispose Abinna; “ho una memoria, io, che qualche volta dimentico pure il mio nome. Dunque abbiamo mangiato prima un porco tutto coronato di salsicce e cotechini ottimamente cucinati, poi barbabietole e pane di casa, che io preferisco a quello bianco perché ti dà sostanza e quando vai di corpo non ti fa piangere. Poi ci hanno servito una focaccia fredda con dell’ottimo miele di Spagna, caldo. La focaccia, però, non l’ho nemmeno assaggiata, mentre del miele ne ho fatto una indigestione. Come contorno, poi, c’erano ceci e lupini, noci a piacere ed una mela a testa…… Ah poi, la mia signora mi fa ricordare che ci è stata servita anche carne d’orso e la mia Scintilla (il nome della moglie) per averne assaggiata un po’ stava  vomitando anche le budella. Io, invece, ne ho mangiato più di una libbra perché aveva lo stesso sapore della carne di cinghiale….. Dopo ci hanno portato formaggio fresco, lumache, trippa, fegato in tegame, uova al cappuccio, rape, senape ….. poi hanno fatto girare un vaso di olive sotto aceto e certi disgraziati se ne sono prese perfino tre manciate, e anche un prosciutto, che però abbiamo rimandato indietro”.

Finita la descrizione di Abinna, Trimalcione ordinò che si servisse la frutta ; i servi ripulirono la mensa e apparecchiarono ancora, spargendo per terra segatura mista a zafferano e carminio, e anche talco finissimo.

……e furono portati i dolci: tordi infarciti di farina di segala, uva passa e noci; e poi, mele cotogne: ….. E questo poteva anche passare se non ci fosse recata un’altra portata così abominevole che ci fece venir voglia di morir di fame piuttosto che mangiare ancora. Quello che ci fu servito era una grassa oca con contorno di pesci e uccelli di ogni genere…..

Lo stile alimentare dei romani era aderente al modello storico della dieta mediterranea

Roma e la dieta Mediterranea

Come si è detto, Roma aveva importato dalla Grecia la democrazia, la filosofia e lo stile alimentare, quest’ultimo basato essenzialmente sulla triade “pane-olio-vino”, elementi che restarono centrali anche nella alimentazione dei romani.

Il pane

Il pane aveva un ruolo primario nell’alimentazione dei Romani, per cui Roma importava ingenti quantità di cereali dalla Puglia, dalla Sicilia, e dalle province d’Africa, soprattutto dall’Egitto. Per avere una idea delle necessità agrarie di Roma, ogni anno le quantità di grano importate dall’Egitto e dalle province romane del nord-Africa (Tunisia, Algeria, Libia) ammontavano a circa 50-60 milioni di moggi, equivalenti a 350-420.000 tonnellate odierne, che venivano stipate nei grandi magazzini portuali di Ostia e di lì trasportati a Roma via fiume per essere ammassati negli enormi magazzini romani, gli “Horrea” situati nell’”Emporium” romano, nell’odierno quartiere del Testaccio.

La distribuzione gratuita di grano

Il grano era l’alimento di base del popolo romano. Basti pensare che i romani della plebe ricevevano ogni anno gratuitamente un certo quantitativo di grano. Il prefetto dell’Annona era il responsabile di queste distribuzioni gratuite (le “Frumentationes”), riservate appunto alla plebe urbana et romana, la cosiddetta  plebe frumentaria, circa 200.000 cittadini romani maschi adulti e residenti, che mensilmente ricevevano gratuitamente dallo Stato 5 moggi di grano a testa (circa 35 kg). La distribuzione del grano avveniva al “Porticus Minucia” (attuale Largo Argentina). In seguito, ad opera dell’imperatore Aureliano si passò alla distribuzione gratuita di pane, che avveniva in diversi punti della città, i “graduus”.

I romani usavano il grano anche per farne Pouls, ma soprattutto per fare il pane, l’alimento base della plebe romana (il pane interessava assai poco i ricchi; infatti, nei Convivi il pane non c’era quasi mai o, se c’era, aveva un ruolo del tutto marginale, quasi ornamentale. A Roma, comunque, il pane veniva prodotto in grandi quantità e in molte varietà; c’erano almeno venti diversi tipi di pane, per ogni uso e per ogni gusto. Il pane più comune era il “Panis Quadratus (cioè a quattro fette) e il pane “a otto fette”. Filostrato il Vecchio vissuto nel I secolo d.C. così ci descrive il pane: “Se siete interessati al pane lievitato o ai pani a otto fette, sono qui, nell’ampio cesto. Se volete una aggiunta di sapore, avete a disposizione le pagnotte stesse, insaporite con finocchietto e prezzemolo, e anche con semi di papavero, la spezia che porta sonnolenza” (Immagini: Xenia, II.26). Il pane, quindi, in tanti formati, pagnotte, sfilatini, panini, pane bianco o pane scuro casereccio, di grano, di farro o di altri cereali inferiori, cotto al forno o in casa.

IL PANE A ROMA

Esistevano a Roma numerosi formati di pane, per usi differenti, fatti con impasti e metodi di cottura diversi. Con la farina di qualità superiore (siliga) si produceva il panis siligineus. Secondo poi come veniva setacciata la farina si aveva il panis cibarius, secundarius, plebeius, rusticus. Il panis militaris castrensis, riservato ai soldati erano delle gallette che si conservavano a lungo, il panis nauticus, era destinato ai marinai. Il panis autopyrus era un pane integrale mentre il panis parthicus, detto anche aquaticus era spugnoso e in grado di assorbir brodo e liquidi; il panis furfureus, infine,  era un pane di crusca, destinato ai cani.

Tra i diversi tipi di impasto per il pane,  quelli in uso nelle zone rurali includevano leguminose, ghiande, castagne e altri elementi “poveri”, mentre quelli più raffinati  potevano contenere spezie, latte, uova, miele, olio. Un pane di lusso eral’artolaganus, con miele, latte, vino,  olio, pepe e canditi.Secondo poi il tipo di cottura, c’era il panis furnaceus, cotto al forno, l’artropticus, cotto in  casa sotto una campana, il subcinerinus o fugacius, cotto sotto la cenere, eil clibanicus, una sorta di pan-focaccia cotto sulla parete esterna di un  vaso arroventato da carboni accesi al suo interno.

Un cenno alla pasta

La pasta, quella essiccata come la conosciamo oggi, non esisteva in quell’epoca. Questa pasta compare infatti per la prima volta nei documenti storici intorno al 1050 d.C. in Sicilia, ove gli Arabi che vi si erano insediati avevano messo a punto un metodo per essiccare la pasta, che così divenne conservabile e trasportabile verso mercati anche lontani.

La pasta fresca, fatta in casa, tuttavia, a Roma c’era anche se era poco presente sulla tavola dei romani. Orazio diceva di sé che quando non era invitato a cena fuori, chiudeva la giornata con la sua amata zuppa di porro, ceci e lagana (la lagana era un tipo di pasta fresca fatta in casa paragonabile alle odierne lasagne o a tagliatelle molto larghe). 

L’olio di oliva

L’olio di oliva, come si è detto, era anch’esso elemento centrale nella alimentazione dei romani. L’olio buono, quello di “prima spremitura”, l’oleum viridis, prodotto da olive ancora un po’ verdi raccolte a mano, era molto costoso ed era quello che finiva sulla tavola dei ricchi, mentre ai poveracci era riservato un olio di non buona qualità, che costava poco, ottenuto da olive mature, scure, che cadevano al suolo dove venivano raccolte per farne un olio scadente, il cibarium oleum.

Roma importava molto olio

Per il suo largo consumo non soltanto nella alimentazione, ma anche per l’illuminazione, per la cosmetica, per la cura del corpo alle Terme, e per farne unguenti e balsami, Roma importava ingenti quantità di olio di oliva della province.

Verso il 140 d.C. durante l’impero di Adriano e poi di Antonino Pio, veniva importato dalla Beltica (attuale Andalusia) e dall’Africa una quantità di olio pari  a 260.000 anfore, pari a 156.000 ettolitri, che venivano depositati nei giganteschi horrea del Testaccio, ove trovava posto non soltanto il grano e il vino ma anche l’olio di oliva. Il monte Testaccio, 30 m di altezza e 1500 m di perimetro, sorse dal nulla verso il II-III secolo d.C. grazie al sistematico accumularsi dei cocci delle anfore olearie e vinarie, che venivano distrutte dopo aver trasportato olio o vino. L’olio italiano, il migliore in assoluto, veniva prodotto in Liguria e a Venafro (Molise) ed era quello destinato ai ricchi, come ci riferiscono Orazio, Marziale, Giovenale Plinio e il Greco Strabone, che cita Venafro come la località da cui proviene l’olio migliore. L’olio spagnolo, meno pregiato, era destinato al consumo popolare mentre quello africano, di scadente qualità, era utilizzato per l’illuminazione.

Il vino a Roma

Roma beveva vino negli enopoli

Roma amava molto il vino. A Roma il vino si vendeva negli Enopoli (cantine dedicate alla vendita e alla mescita di vino; nei Termopoli, invece, si vendevano cibi caldi oltre al vino). Si poteva acquistare un “sospiro” o “sottovoce”, che corrispondeva a un decimo di litro, cioè un semplice bicchiere; il “cirichetto” invece era un quinto di litro; poi c’era il quartino, la “fojetta” da mezzo litro e il “tubbo” che corrispondeva ad un litro. La caraffa da due litri veniva indicata con il termine “barzilai”, che era il nome di un politico romano che aveva l’abitudine di offrire vino in abbondanza ai suoi elettori.

In epoca Repubblicana, alle donne era severamente vietato bere il vino, pena gravi sanzioni, pari a quelle dell’adulterio. Questo divieto venne comunque abrogato sotto Augusto. Infatti, Giulia Augusta, seconda moglie di Augusto succeduta a Livia, sosteneva che grazie al vino aveva raggiunto la ragguardevole età di 86 anni.

Il vino era generalmente bevuto diluito con l’acqua o con acqua di mare in un rapporto di 1:3 (Plinio il Vecchio sosteneva invece che il vino andava gustato non diluito). Questa diluizione era finalizzata soprattutto a far sì che i commensali dei convivi potessero berne di più e più a lungo senza ubriacarsi; diluire il vino con acqua, quindi, garantiva al simposio un livello di correttezza alieno da deprecabili eccessi.

L’”arbiter bibendi”, un convitato sorteggiato con i dadi, era colui che dirigeva la cerimonia delle libagioni, decidendo anche di quanto diluire il vino; lui, tuttavia, non poteva toccare una sola goccia di vino perché doveva restare assolutamente sobrio. Meno frequentemente si beveva il merum, cioè il vino puro, non tagliato, ma coloro che ne bevevano erano considerati autentici ubriaconi.

Roma amava il vino sofisticato

Nella Roma arcaica piaceva molto unire al vino piante aromatiche particolarmente odorose, per modificarne il sapore e il profumo: coriandolo, menta, basilico, rosmarino, anice, finocchio. Altre volte venivano aggiunte spezie (cannella, pepe garofano), o anche miele; il vino misto a miele era denominato mulsum. Il “granum paradisi” era ottenuto unendo al vino dei chiodi di garofano, del miele, dello zenzero e della cannella. L’ “ippocras” era invece un vino addizionato con ambra, pepe, mandorle, muschio, susine, zenzero, cannella, chiodi di garofano e fiori di macis.

Se l’aggiunta di spezie era una vera sofisticazione del vino che comunque piaceva molto ai romani, l’aggiunta di altri additivi invece, quali resine profumate, fave sminuzzate, pece, cenere, gesso, conchiglie sminuzzate ed altro, serviva in parte a modificare il gusto e il colore del vino (quello di scarso pregio) ma, soprattutto, era finalizzato, secondo loro, ad aumentarne la conservabilità e la durata nel tempo.

La storia del vino a Roma

Il vino della Roma Repubblicana proveniva in origine da vitigni autoctoni, soprattutto Etruschi, di non grande pregio. Per questo Roma importava vino anche dalla Grecia e dall’Egeo. Basti pensare alla collina del Testaccio, una collina artificiale che si formò per l’accumulo dei cocci delle anfore vinarie ed olearie provenienti soprattutto dall’Egeo. Le anfore, dopo essere state svuotate nei grandi contenitori di vino del vicino Emporium, venivano rotte e gettate via perché erano considerate dei contenitori “monouso”, a perdere.

L’espansione della vitivinicultura in Sicilia e nell’Italia meridionale, particolarmente ad opera dei coloni greci della Magna Grecia, fece in seguito crollare l’importazione di vino dalla Grecia e dall’Egeo. Secondo Plinio il Vecchio, i nuovi vini prodotti in Italia cominciarono a diffondersi durante l’epoca della massima espansione delle colonie della Magna Grecia, fra l’800 e il 400 a.C. I lavoratori delle vigne erano essenzialmente schiavi o coloni Greci. Questi erano esperti viticultori che introdussero in Italia nuovi vitigni di qualità e nuove tecniche vitivinicole, con  viti che venivano molto curate a differenza dei vitigni autoctoni, soprattutto quelli Etruschi, che venivano lasciati pressoché selvatici e poco curati.

Nel II secolo d.C. i raccolti divennero sempre più abbondanti fino a raggiungere livelli di vera e propria sovraproduzione. Come i Greci avevano esportato la viticultura in Italia, così i Romani esportarono il vino e la viticultura in Europa, in Provenza, nel sud-est della Francia, e in Germania, lungo il Reno e la Mosella. Tuttavia, con il progressivo affievolirsi della potenza Romana e la conseguente minore disponibilità di schiavi (Roma non riusciva a procurarsi nuovi schiavi perché non vinceva più le guerre), buona parte della produzione viticola venne meno per cui Roma diventò nuovamente un grande importatore di vino, facendolo arrivare dalla Grecia, dalla Spagna e dalla Gallia.

IL FALERNUM   Il Falernum, il vino più famoso e più costoso, era prodotto nell’ager Falernus (un territorio circoscritto, nel nord-Campania, situato al centro di un perimetro delimitato dai comuni di Castelvolturno, Mondragone, Baia Domizia, Sessa Aurunca, Sparanise e S. Maria Capua Vetere)ed era noto come un grande vino già in epoca Repubblicana; verso l’inizio del I secolo a.C. era considerato uno dei vini migliori in assoluto. Plinio il Vecchio affermava che “… i vini d’oltremare mantennero un grande prestigio sino all’epoca dei nostri nonni, quando il Falerno era già noto come un grande vino”. Molti altri illustri personaggi testimoniarono l’eccellenza di questo vino (Cicerone, Macrobio, Varrone, Virgilio, Orazio, Tito Livio, Vitruvio e, primo fra tutti, Catullo).   Gli intenditori del Falernum erano in grado di distinguerne ben tre varietà: il Faustinianum, la varietà più pregiata, prodotto in media collina e proveniente dagli attuali territori collinari di Falciano del Massico e di Carinola; il Caucinum, proveniente dall’alta collina, l’attuale Casale di Carinola,  e il Falernum generico, proveniente dalla pianura. Il Falernum era un vino sia bianco che rosso, ma la qualità più pregiata, quella invecchiata, era naturalmente il rosso. Era un vino fra i più costosi come è testimoniato da una scritta trovata a Pompei, sulla parete di un Termopolium: “Edone fa sapere: qui si beve per 1 asse; se ne paghi 2, berrai un vino migliore; con 4, avrai il Falernum”.     

La classificazione dei vini secondo Plinio il vecchio

Plinio il Vecchio, nella sua Naturalis Historia, elenca 91 vitigni diversi con 195 diversi tipi di vino; 50 di questi definiti “generosi”, 38 “oltremarini”, 18 “dolci”, 64 “contraffatti”, 12 “prodigiosi”.

All’epoca della produzione più fiorente, i vini più diffusi a Roma erano tre: due vini Campani, il Falernum eil Caecubum ed uno laziale, l’Albanum, tre vini che si contesero a lungo il primato sino all’epoca di Augusto. Sotto Augusto crebbero in reputazione anche altri vini, il Gauranum, il Trebellicum, il Trebulanum ed altri, provenienti dal territorio fra Napoli e Sorrento. Il Caecubum, tuttavia, che era prodotto nel territorio tra Fondi e Gaeta, divenne pressoché introvabile già all’epoca di Plinio il Vecchio, che attribuiva questa scomparsa ad una cattiva coltivazione in quanto, diceva,  “è in mano a gente che bada più alla quantità che alla qualità”. In realtà la produzione del Caecubum cessò per le mutate condizioni pedoclimatiche, a seguito dei lavori intrapresi in

IL FALERNUM   Il Falernum, il vino più famoso e più costoso a Roma, era prodotto nell’ager Falernus (un territorio circoscritto del nord-Campania, situato al centro di un perimetro delimitato dai comuni di Castelvolturno, Mondragone, Baia Domizia, Sessa Aurunca, Sparanise e S. Maria Capua Vetere)ed era noto come un grande vino già in epoca tardo-Repubblicana; verso l’inizio del I secolo a.C. era considerato uno dei vini migliori in assoluto. Plinio il Vecchio affermava che “… i vini d’oltremare mantennero un grande prestigio sino all’epoca dei nostri nonni, quando il Falerno era già noto come un grande vino”. Molti altri illustri personaggi testimoniarono l’eccellenza di questo vino (Cicerone, Macrobio, Varrone, Virgilio, Orazio, Tito Livio, Vitruvio e, primo fra tutti, Catullo).   Gli intenditori del Falernum erano in grado di distinguerne ben tre varietà: il Faustinianum, la varietà più pregiata, prodotto in media collina e proveniente dagli attuali territori collinari di Falciano del Massico e di Carinola; il Caucinum, proveniente dall’alta collina, l’attuale Casale di Carinola,  e il Falernum generico, proveniente dalla pianura. Il Falernum era un vino sia bianco che rosso, ma la qualità più pregiata, quella invecchiata, era naturalmente il rosso. Era un vino fra i più costosi come è testimoniato da una scritta trovata a Pompei, sulla parete di un Termopolium: “Edone fa sapere: qui si beve per 1 asse; se ne paghi 2, berrai un vino migliore; con 4, avrai il Falernum”.     

All’epoca della produzione più fiorente, i vini più diffusi a Roma erano tre: due vini Campani, il Falernum eil Caecubum ed uno laziale, l’Albanum, tre vini che si contesero a lungo il primato sino all’epoca di Augusto. Sotto Augusto crebbero in reputazione anche altri vini, il Gauranum, il Trebellicum, il Trebulanum ed altri, provenienti dal territorio fra Napoli e Sorrento. Il Caecubum, tuttavia, che era prodotto nel territorio tra Fondi e Gaeta, divenne pressoché introvabile già all’epoca di Plinio il Vecchio, che attribuiva questa scomparsa ad una cattiva coltivazione in quanto, diceva,  “è in mano a gente che bada più alla quantità che alla qualità”. In realtà la produzione del Caecubum cessò per le mutate condizioni pedoclimatiche, a seguito dei lavori intrapresi in quel territorio per la costruzione della Fossa Neronis, un canale navigabile che avrebbe dovuto congiungere Pozzuoli a Roma.

Mediamente i Romani bevevano il vino invecchiato di tre-quattro anni, anche se alcune varietà davano il meglio di sé dopo 10-15 anni.

Le salse a Roma

La salsa più comune a Roma: il Garum

Un beve commento meritano anche i condimenti in uso a Roma.

Le salse, a Roma, erano a base di latte, senape, noci, mandorle ed altro, e servivano essenzialmente per guarnire le carni. Una salsa molto ricercata era il Garum o Liquamen, una salsa densa e molto scura che si ricavava dal liquido che scolava dalle alici ed altri pesci  lasciati essiccare al sole; questa “salsa”, poi, veniva addizionata con erbe aromatiche e spezie le più svariate, la cui ricetta veniva tenuta segreta da ciascun venditore, ognuno dei quali ne aveva appunto una personale.

Per la salsa di pomodoro occorrerà attendere Cristoforo Colombo, che importò i pomodori in Europa dal nuovo Mondo. Ma di questo si parlerà in seguito.