Il Tratturo Magno: uno scrigno di Dieta Mediterranea
Quella del Tratturo Magno (o Regio Tratturo) è, prima di tutto, la storia di una comunità. Per chi non lo sapesse, i tratturi erano gli antichi sentieri che, da tempi immemori, i pastori transumanti percorrevano con i loro animali a maggio e ad ottobre per spostarsi, rispettivamente, in montagna per poi tornare in pianura.
In Italia meridionale, il fenomeno tratturale coinvolge quasi sostanzialmente tutte le regioni, ma l’asse portante di questa rete di cammini è dato dal Tratturo Magno, da Foggia a L’Aquila.
Percorso da tempo immemore, inutilizzato nell’Alto Medioevo e ripreso dagli Aragonesi, praticato fino agli anni ’40 e poi abbandonato a sé stesso nei decenni successivi del ‘900, il Tratturo Magno sta vivendo una nuova ripresa, favorita da importanti attori sul territorio pugliese, molisano ed abruzzese.
Tra questi come non fare riferimento alla transumanza ogni anno portata avanti dalla famiglia Colantuono, di San Marco in Lamis, ma anche alle numerose associazioni, enti pubblici, GAL, che sui territori cercano di riprendere questo tratto importantissimo da un punto di vista storico e culturale, soprattutto per un uso legato al turismo sostenibile.
Così come ogni storia e cultura che si rispetti, il Tratturo ha “partorito” una quantità incredibile di usi, costumi, tradizioni legati alla dieta mediterranea. Possiamo dire senza alcun timore di essere smentiti che la tradizione agroalimentare del Tratturo è quella che unisce usi e tradizioni di tutto il Basso Adriatico (alle tradizioni venete, ladine e friulane, va invece il ruolo di anello di congiunzione della parte alta del mare incastonato tra Italia e Balcani) e che mette insieme il Mediterraneo Centrale con quello Orientale.
Il Tratturo, peraltro, parla diverse lingue: oltre ai dialetti meridionali tipici di questo lato dell’Appennino, il Tratturo, infatti, percorre anche quell’oasi arbëreshë che coinvolge la Puglia settentrionale e la parte centro-meridionale del Molise con comuni ancora attivamente arbëreshë quali Chieuti, Portocannone, Campomarino, fino al comune arbëreshë più a nord di tutti: Villa Badessa, frazione di Rosciano, in provincia di Pescara.
Da menzionare sicuramente anche la comunità estinta (per comunità estinta si intende un centro di fondazione arbëreshë, ma che ha perso l’uso della lingua e del rito bizantino), ma dalle tradizioni e dagli usi gastronomici grandemente influenzati, di San Paolo di Civitate, centro cardine del Tratturo ove è presente anche l’antica dogana e la cappella di Belmonte, tappa imprescindibile per i pastori transumanti.
Va detto, però, che anche se non direttamente situati lungo il percorso del Tratturo, a pochi chilometri di distanza, questo sentiero della transumanza incrocia anche gli arbëreshë Casalvecchio di Puglia, Montecilfone ed Ururi, il centro francoprovenzale di Faeto e l’area croato-molisana di Acquaviva Collecroce, Montemitro e San Felice del Molise oltre ad incontrare la comunità (estinta, anche in questo caso) di San Giacomo degli Schiavoni.
Insomma, parliamo di una vera e propria koiné mediterranea che ha dato origine a prodotti incredibili ed assolutamente fondamentali per definire i tratti della Dieta Mediterranea tipica di questo versante del bacino.
In un ipotetico menù del Tratturo, le prime preparazioni o prodotti che troveremmo sarebbero sicuramente: il pancotto del Tavoliere, il cece e lo zafferano di Navelli.
Il pancotto è una preparazione ben nota in tutta Italia che comprende anche versioni regionali ligure, sarde, lombarde ecc.
Ogni versione, naturalmente, comprende, però prodotti di base ed erbe diverse. Sul tavoliere sono compresi pezzi di pane raffermo (nella zona, tipici sono il Pane di Monte Sant’Angelo e quello di Ascoli Satriano, più a sud quello di Altamura e di Laterza), pomodori datterino essiccati al sole, e verdure di campo spontanee come cicoria, marasciuoli, tarassaco, cime di rapa, senape selvatica, rucola, borragine ed altre, oltre naturalmente all’olio extra-vergine d’oliva locale, quasi sempre prodotto con un elevato tasso di oliva di varietà peranzana, coltivata soprattutto nei comuni di San Severo, San Paolo di Civitate, Torremaggiore e Serracapriola grazie a discendenti di Carlo Magno che la portarono dalla Provenza (infatti, un’altra delle sue denominazioni è proprio “Provenzale”).
Se ci spostiamo nell’aquilano, invece, troviamo i ceci e lo zafferano di Navelli (talvolta anche insieme nella preparazione di ceci con lo zafferano). Coltivati da tempo immemore, i ceci di Navelli si caratterizzano per le piccole dimensioni e per i colori crema e ruggine in una varietà ancora più piccola e dalla superficie più grinzosa.
Rispettando pienamente il detto locale “Alla terra nera non si mettono i ceci”, i ceci di Navelli sono coltivati quasi sempre in terreni aridi e quasi mai “sprecando” terreni fertili, ottimi per altri tipi di prodotti. Uno dei piatti tipici del territorio è la minestra di ceci e castagne, una preparazione rituale di questa ona dell’Abruzzo che inaugurava il periodo natalizio.
L’oro rosso di Navelli, dell’Aquila e dell’intero Abruzzo, però, è lo zafferano. Portato nell’Altopiano di Navelli attorno al XIII secolo da un domenicano della famiglia Santucci, secondo una leggenda, in realtà, lo zafferano sarebbe stato portato da Ponzio Pilato in età romana, la cui villa sarebbe stata anche ritrovata da scavi archeologici locali.
Il secondo piatto è dato, sicuramente da prodotti freschi di assoluta eccellenza come il caciocavallo podolico del Gargano.
Nella seconda metà del Novecento, purtroppo, razze bovine a maggiore produttività avrebbero soppiantato le razze autoctone. La vacca Podolica, derivata da un ceppo asiatico giunto in Italia probabilmente a seguito delle invasioni barbariche nel periodo di crisi dell’Impero romano d’Occidente però, non è del tutto scomparsa, ma è rimasta nei territori di maggior diffusione: Abruzzo, Molise, Campania, Calabria, Basilicata e Puglia. Già nel V secolo d.C., però, la vacca podolica ebbe particolare successo nel Tavoliere e sul Gargano tanto che, in seguito, avrebbe talvolta assunto il nome di bovino “pugliese”. Questo animale ha un profilo rettilineo, corna larghe ed un caratteristico manto grigio e possiede grandi capacità di adattamento anche a condizioni ambientali difficili. L’allevamento allo stato brado offre un latte particolarmente aromatico con cui poi si producono diversi formaggi e carni ricche di sali minerali dalle parti grasse di colore giallo poiché gli animali brucano erbe ricche di carotene, una sostanza praticamente assente nei mangimi degli allevamenti intensivi. Il prodotto principale di questa vacca è il suo latte con il quale si produce soprattutto l’omonimo caciocavallo. Questo formaggio è la sintesi perfetta dell’allevamento allo stato brado, delle erbe della Capitanata e della transumanza verso le alture molisane e abruzzesi. Sarebbe proprio da quest’ultima, infatti, che avrebbe assunto quella forma che noi ora conosciamo, comoda da trasportare e pratica nella stagionatura visto che non poggia su una superficie, ma resta sospeso “a cavallo” di una pertica.
Un altro formaggio tipico di questo territorio, soprattutto tra Tavoliere e Molise, è la manteca. Il nome della manteca deriva sicuramente da “mantequilla”, ovvero burro, in spagnolo. Questo formaggio, infatti, nasce proprio dalla necessità di conservare il burro nei periodi caldi e, in particolar modo, nel corso della transumanza ed è costituito da un “involucro” di pasta di caciocavallo all’interno della quale è presente del burro di podolica.
Parlando di secondi piatti, è impossibile non menzionare il tradizionale torcinello.
Si tratta di un prodotto tipico della transumanza di pecore e montoni lungo i tratturi. Si tratta di un alimento diffuso soprattutto tra Puglia e Molise (in Abruzzo lascia spazio al più tipico arrosticino o rustella) fatto da budella e animelle d’agnello. Centri d’eccellenza sono, indubbiamente, San Paolo di Civitate (dove pare sia stato inventato per poi essersi diffuso in tutta l’area) e Gildone, in provincia di Campobasso.
In verità, il torcinello ha più o meno illustri parenti anche in altre aree del Mediterraneo come il kokoreç turco che sarebbe, sostanzialmente, un gigantesco torcinello arrostito su uno spiego e servito da secoli come street food.
E il dessert? Da menzionare sono sicuramente i pupurati, vero e proprio concentrato di prodotti dolci tipici del Mediterraneo come miele, mosto cotto e scorza d’arancia assieme a chiodi di garofano e cannella. L’impasto è intervallato da dei taglietti, chiamati ‘ntacc in dialetto locale e viene cotto in forni a legna. Il dolce risalirebbe alla tradizione albanese del dominio degli Skanderbeg sul feudo del Gargano. A Monte Sant’Angelo è preparato soprattutto come dolce di carnevale o in occasione di fidanzamenti e matrimoni. Ogni invitato al matrimonio, infatti, riceve na cocche de puprète, ovvero due biscotti come buon augurio.
Se invece avete la fortuna di essere ospiti dell’oasi arbëreshë lungo il Tratturo Magno probabilmente potrete gustare prodotti come la Tepsi, una sfoglia farcita con spinaci, riso e cipolle, la Gjimaveja a base di agnello, brodo e uova, la Nusja, una bambola di pastafrolla tipica del periodo pasquale, il Kulac, un dolce nuziale antichissimo con liquore all’anice, o il Grur me arra, versione arbëreshë del “grano dei morti”.
Antonio Caso
esperto in marketing territoriale